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Il buffone incatenato. La tragedia di Aldo Moro di Dario Fo

Federica Tummillo

Résumé

Il Caso Moro è un dramma scritto da Dario Fo nel 1979 e mai portato in scena.
Il motivo di tale scelta è stato rivelato dall’autore stesso in un’intervista rilasciata a Chaira Valentini nel 1997. Alla domanda della giornalista se ci fosse “qualcosa che non è mai riuscito a raccontare”, Fo ha indicato proprio il sequestro Moro. A quanto pare il testo, come dimostrato da alcune letture pubbliche, “annoiava”.
Il Caso Moro, strutturato sul modello della tragedia classica greca, è la rielaborazione in forma dialogica delle lettere scritte da Aldo Moro durante i suoi cinquantacinque giorni di prigionia. L’intenzione di Fo era di “far parlare Moro finalmente con la sua voce”, ridando così vita ad un dramma che, come ci ricorda il mito di Filottete, non è altro che “uno smaccato tradimento mascherato da sublime sacrificio”.
La “rappresentazione mancata” di un autore che ha dedicato buona parte della sua produzione ai fatti politici tra gli anni ’60 e ’70 (si veda Morte accidentale di un anarchico del 1969, che allude al finto suicidio dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato dalla polizia qualche giorno dopo la strage di piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969 e Pum ! Pum ! Chi è ? La polizia, del 1972, riferito alla vicenda giudiziaria di Pietro Valpreda, anch’egli arrestato il 15 dicembre con l’accusa d’esserne stato l’esecutore) è emblematica di un periodo storico che non è mai riuscito a raccontarsi pienamente, come sostiene lo stesso Fo quando afferma che il terrorismo sia stato un’“occasione mancata” della drammaturgia italiana.

Résumé en français

Le bouffon enchaîné Caso Moro de Dario Fo

La pièce Caso Moro a été écrite par Dario Fo en 1979 et n’a été jamais mise en scène.
La raison d’un tel choix a été révélé par l’auteur lui-même lors d’un entretien avec Chiara Valentini en 1997. A la question de la journaliste s’il y avait quelque chose qu’il n’avait jamais réussi à raconter, Fo a indiqué justement l’affaire Moro. Apparemment, comme cela avait été prouvé lors des lectures publiques, le texte “ennuyait”.
Le Caso Moro, structuré selon le modèle de la tragédie grecque classique, est l’élaboration en forme dialogique des lettres écrites par Aldo Moro pendant les cinquante-cinq jours de son enlèvement. Son intention était de “donner finalement à Moro sa propre voix”, en redonnant ainsi la vie à un drame que, comme dans le mythe de Philoctète, n’est que “une sacré trahison déguisée en sacrifice sublime”.
La “représentation manquée” d’un auteur qui a consacré une bonne partie de sa production théâtrale aux faits politiques des années Soixante et Soixante-dix (par exemple Morte accidentale di un anarchico (1969), qui fait allusion au faux suicide de l’anarchiste Giuseppe Pinelli, arrêté par la police quelques jours après le massacre de Piazza Fontana à Milan le 12 décembre 1969 et Pum ! Pum ! Chi è ? La polizia (1972), qui concerne l’histoire judiciaire de Pietro Valpreda, arrêté le 15 décembre et accusé d’être le responsable du massacre) est emblématique d’une période historique qui n’a jamais reussi à se raconter complètement, comme soutient Dario Fo quand il affirme que le terrorisme est une “occasion manquée” de la dramaturgie italienne.

Texte intégral

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Se c’è qualcosa che Dario Fo non è mai riuscito a portare in scena, è proprio il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Una storia rimasta inaccessibile anche alla fervida immaginazione di un giullare, la stessa che è riuscita a narrare, con spietata ironia e irriverente leggerezza, la morte accidentale dell’anarchico Pinelli.

Eppure, come disse lo stesso Fo nel 1997 in un’intervista, egli sentiva quell’evento “come qualcosa di cui era necessario parlare” (Valentini, 1997).

Il testo, scritto “a botta calda” (ibid.) nel 1979, era intitolato La tragedia di Aldo Moro, e il primo atto fu pubblicato inizialmente sul “Quotidiano dei lavoratori” del 2 giugno e poi su “Panorama” del 5 giugno. Contemporaneamente, una serie di articoli sulla stampa nazionale (“La Repubblica”, “Il Messaggero”, “Avanti”, “Il Lavoro”, “Stampa sera”, “Il Manifesto”, “Il Secolo XIX”, “Lotta continua”, etc.) annunciava l’imminente messa in scena della pièce.

L’opera faceva parlare di sé non solo per l’argomento scottante, ma anche perché, per la prima volta, l’opinione pubblica associava il nome di Dario Fo all’idea di tragedia.

Come mostrano i disegni che l’autore fece al momento della stesura del primo atto[1], la scena era simile alla struttura di un antico teatro greco ed era popolata da un coro di satiri e baccanti. Al centro, come un imputato, stava Aldo Moro (ruolo destinato a Fo) mentre, seduti sui gradoni della cavea, erano disposti “gli otto”, i suoi compagni di partito col volto coperto da maschere.

La “drammatica analogia” tra il caso Moro e “le situazioni tipiche della tragedia greca”[2], aveva portato l’autore ad assimilare l’ex leader della Democrazia Cristiana alla vittima sacrificale, in particolare ai personaggi di Ifigenia e del Filottete sofocleo, l’eroe greco ferito e abbandonato dai suoi compagni su un’isola deserta. Ad orchestrare l’azione scenica ci sarebbe stato un Buffone, interpretato da Franca Rame, che sin dal prologo avrebbe dichiarato che quella di Aldo Moro non era altro che “la solita fottuta tragedia classica antica”[3].

Nonostante le premesse, vedremo che si tratta di una tragedia atipica, dai registri stilistico e linguistico difficilmente catalogabili. Sappiamo che Fo intendeva percorrere la strada dell’“ironia tragica” piuttosto che quella, a lui cara, del grottesco[4]; egli era disposto a forzare la propria natura poetica pur di portare avanti un’inchiesta sul caso Moro e condividerne i risultati con il pubblico, da sempre unico e vero arbitro del suo teatro.

Così, nel 1979, Fo fece alcune letture pubbliche del primo atto per verificare l’impatto del testo sugli spettatori. Il risultato fu alquanto deludente: il pubblico si annoiò. È l’autore stesso a raccontarcelo, precisando che La tragedia di Aldo Moro era “solo un’operazione culturale, non era teatro”[5] e che in seguito egli aveva tentato di riscrivere la pièce alla sua maniera, ma che la corsa precipitosa dietro alle notizie di cronaca (gli infiltrati, il covo di via Gradoli, il memoriale) non gli aveva consentito di stilare un testo definitivo.

Verrebbe la tentazione, riprendendo Beatrice Alfonzetti, di chiedere oggi a Fo:

[…] un più lucido approfondimento, uno sforzo per scavare in quegli anni con maggiore spregiudicatezza e più verità. Una verità riguardante certi settori soprattutto giovanili del suo pubblico, forse a disagio nel riconoscere in questa parodia della tragedia […] la solita maniera di Fo, anche perché quell’argomento era scottante e divideva le coscienze. Il teatro politico di Fo poteva stare dalla parte di Pinelli, ma non di Moro[6].

Di fatto Fo non concluse, o comunque non rese pubblico, il secondo atto della pièce, in cui avrebbero preso la parola le Brigate Rosse[7] ; una prova difficile, come lui stesso affermò all’epoca, che aveva in progetto da parecchi mesi [8].

Sarebbe interessante condurre un’indagine approfondita sull’identità del pubblico di Fo, per comprendere davvero fino a che punto esso abbia determinato alcune scelte dell’autore ; eppure vale la pena di ascoltare, per ora, le pure e semplici ragioni del testo, a partire dal prologo. Qui il Buffone, dopo aver contrapposto la “misera fantasia del potere” al “potere dell’immaginazione”, proclama: “Moro parlerà finalmente con la sua voce… e dirà parola per parola quello che ha scritto… V’accorgerete che ben diversa dimensione acquista il dialogo a botta e risposta coi compari d’un tempo… davvero tragico… quasi osceno. Osceno per il potere.” (“Il caso Moro”, p. 175).

L’attacco suona come una dichiarazione programmatica, che era già stata resa nota in un’intervista:

Io non ho inventato nulla – dichiarava Fo. In teatro il pubblico ascolterà le parole che tutti i protagonisti hanno detto all’epoca, il testo sarà cioè costituito da tutto ciò che realmente è stato tirato fuori. E una cosa posso dire con certezza: che tutto questo dialogo è di una violenza incredibile[9].

Dichiarazione che da un lato suonava come una sfida, quella di riuscire a dare forza espressiva ad un materiale eterogeneo tramite la semplice trasposizione in forma dialogica, ma che dall’altro era coerente con la sua concezione del teatro, ovvero “un meraviglioso trampolino per arrivare ad altro: alla scienza, alla conoscenza, alla verità” (Fo, 2007).

Come in Morte accidentale di un anarchico, Fo si servì del metodo dell’inchiesta[10], consultando documenti ufficiali, comunicati stampa, interviste, e analizzando le lettere scritte da Moro durante i cinquantacinque giorni di prigionia. In questo caso, però, Fo si ritrovò davanti ad una doppia difficoltà: da un lato, l’allontanamento dal registro grottesco, che egli aveva sempre privilegiato[11] ; dall’altro, la trasposizione in forma dialogica di un materiale originariamente destinato alla lettura, il cui autore non era un politico qualsiasi, bensì Aldo Moro.

Sul linguaggio del non dire di Moro si era già espresso Leonardo Sciascia nell’Affaire Moro, quando, riprendendo Pasolini, faceva un’analisi di quel “linguaggio completamente nuovo” e incomprensibile, “disponibile a riempire quello spazio in cui la Chiesa cattolica ritraeva il suo latino proprio in quegli anni” (Sciascia, 1978, p. 15) e con cui, a suo avviso, l’ex leader della Democrazia Cristiana aveva dovuto fare i conti al momento della composizione delle sue lettere.

È interessante notare, come già sottolineato dalla Alfonzetti, che nella pièce, l’unico passaggio di stile sublime – che non a caso riprende il Prometeo di Eschilo – è proprio quello che precede l’ingresso del personaggio Moro:

Altissimo sulla roccia inaccessibile agli uomini / fu appeso Prometeo incatenato, prigioniero immolato / alla logica del sacro Stato / egli era figlio del potere, potere egli stesso ornato d’alloro / adesso sull’ultima cuspide di roccia del Caucaso / cattedrale di pietra sta abbandonato, come l’ultimo servo / l’addome squarciato, da lentissima morte crudele assediato / all’irragionevole ragione di Stato immolato. (Ibid., p. 175)

Le parole del Buffone creano un’atmosfera solenne nella quale Moro esordisce con le parole, note a tutti, di una delle sue lettere:

Non mi è certo facile parlare… Come potete immaginare mi trovo sotto un dominio pressante e incontrollato. Ma quello che vi dirò lo dirò con la mia voce, che è quella che è… e le mie parole di sempre.

Sono prigioniero ma libero di esprimermi… Nessuno mi metterà in bocca parole e pensieri non miei ; vengo a dirvi innanzitutto che vi dovrete assumere con me le responsabilità che mi vengono addebitate. Io sto subendo un vero e proprio processo, ma le accuse che mi sono rivolte… coinvolgono non me solo ma tutti noi… ciascuno di voi. (Ibid., p. 175)

Segue la replica di uno degli otto: “Stai tranquillo, Aldo, nessuno di noi ha intenzione di ignorarle quelle responsabilità, quelle colpe… ammesso che ce ne siano.” (Ibid., p. 175) Inizia il botta e risposta tra Moro e i suoi compagni, ma il dialogo tra le due parti è soltanto formale, non c’è un reale scambio di pensieri. Gli amici di Moro si limitano a riprendere l’ultima sua battuta per poi negarla:

Moro: “Ma voi non potete fingere di ignorare che in verità…”
Uno degli otto: “Noi non fingiamo né ignoriamo un bel niente…” (Ibid., p. 175)

O ancora:

Moro: “Ma era una questione morale… una mia presenza, se pure allegorica, a quella carica… avrebbe tenuto desto nel partito e nell’opinione pubblica…”
Anziano: “Ma con l’allegoria non si fa la politica…” (Ibid., p. 176)

Questa dinamica, questo dialogo frustrato, va avanti per un po’. Il linguaggio completamente nuovo di Moro va a sbattere contro una parete di gomma, contro una non ricezione da parte dei suoi compagni di partito che culmina, come nella realtà, con una negazione della veridicità delle sue affermazioni:

[…] stiamo sbagliando tutto. Ce la prendiamo con lui come se fossero sue parole quelle che va dicendo (ibid., p. 177).

Noi credevamo di dialogare con lui, con il nostro caro Aldo… giacché ne riconosciamo la voce, non certo lo stile… Infatti per la prima volta riusciamo a capire quello che dice. (Ibid., p. 177-178)

Ma riusciamo a capirlo, proprio perché non è lui che parla, ma, per lui, le Brigate rosse. […] Ci troviamo davanti al fantoccio… manovrato da altri. (Ibid., p. 178)

In un crescendo delirante, Moro, da leader di partito, si trasforma in un pupazzo. “Gli hanno incollato la maschera buffa del demente”, interviene il Buffone.

A questo punto, si nota un dato interessante: Moro cambia linguaggio:

Ecco perché mi volete pupazzo… Un po’ di stracci ripieni di paglia non versano sangue. Voi mi state bruciando appeso alla forca della ragion di Stato. Con la fiamma simbolo della fermezza, mi darete fuoco… ne uscirà solo un po’ di fumo, vi basterà tapparvi il naso e la bocca, gli occhi e perfino le orecchie… come le famose tre scimmiette del potere, e un po’ di fumo dei miei stracci servirà a farvi piangere… che sembreranno lacrime vere… giacché di lacrime di spontanea pietà non ne riuscite a spremere… nemmeno a strizzarvi i testicoli… ormai secchiti come i vostri occhi. (Ibid., p. 178)

L’ex leader della Democrazia Cristiana, con indosso la maschera buffa del demente, inizia a parlare come il Buffone e adotta il linguaggio osceno per farsi capire.

In un’intervista apparsa in quei giorni su Repubblica, Fo parla del conflitto tra lo Stato e le Brigate Rosse come un “conflitto di religione”:

Tutte e due le religioni hanno in comune il sacrificio e dentro questo conflitto di religione è inserita la lotta di Aldo Moro, di quest’uomo che scopre, avendo perso il potere, di essere ridotto a livello umano, di essere d’un tratto uomo comune. Ma serve ad Aldo Moro per scoprire che esistono valori diversi: lui medita, cambia linguaggio, la sua particolare condizione gli ha fatto vedere la vera dimensione del potere, dell’autorità, di questa religione spietata[12].

Nel testo di Fo, a partire dal momento in cui lo statista, il politico, il buon politicante, il compagno di sempre, diventa pupazzo, egli parla a tratti con la sua voce, in altri momenti, con parole immaginate da Fo. Il giullare tenta di fare un’esegesi del linguaggio di Moro, ma con quali strumenti? Quelli della rappresentazione teatrale, o quelli dell’analisi linguistica?

Leggendo La tragedia di Aldo Moro, ci si rende conto che la pièce di Fo parte da una “situazione tipica della tragedia” (per riprendere un’espressione utilizzata dall’autore) alla quale non segue alcuna azione. Il testo teatrale è la simulazione di un pubblico processo di cui lo spettatore conosce già l’epilogo, la condanna a morte, ma non vi assiste. La tragedia scaturisce dal senso di impotenza del personaggio Moro di fronte ad una decisione irrevocabile da parte dei suoi compagni di partito. Una tragedia che non si compie fino in fondo, senza catarsi, dove neanche il deus ex machina, incarnato dal papa, riuscirà a compiere il miracolo. L’ingresso di Paolo VI, che si inginocchia davanti alle Brigate Rosse affinché liberino il “comune fratello senza condizioni”, viene seguito dalla disperata reazione di Moro:

Moro: “No, no padre, vi siete confuso… non è a loro, alle Brigate Rosse, che dovete portare la vostra affettuosa intercessione… ma verso loro… Questi altri… li vedete?” (Ibid., p. 187)

Questa parodia della tragedia viene definita dal Buffone un “melodramma da quattro soldi”. Portatori di morte non sono né re, né eroi, né capitani d’esercito assetati di gloria, bensì “cialtroni del potere”, “mammozzi”, “babbuini scurrili”. Basti rileggere le parole pronunciate nel prologo:

[…] A vederli così addobbati e compunti sembrano uomini eccelsi… superiori. Ma niente hanno di superiore ! Basta che una folata di vento arrivi di botto a sollevar i loro panneggi e vedrete di sotto apparire chiappe flaccide come le loro facce… e i testicoli spenti come i loro occhi… e se li insultate allora pisciano e scorreggiano parole più triviali dei loro inferiori! (Ibid., p. 174)

È interessante, a questo punto, soffermarsi un attimo sull’ambiguo valore dell’aggettivo osceno. Il Buffone, provocatoriamente, definisce osceno il dialogo tra Moro e gli altri (p. 175), e Moro definisce oscena la retorica del terrore usata dai suoi compagni (p. 181). Osceno non è quindi il linguaggio ma il modo in cui esso viene usato, osceno diventa il girare in tondo della parola senza significato, oscena è l’incomunicabilità da cui nasce la violenza.

Fo vuole costruire un testo da cui emerga l’oscenità del potere, vuole far parlare da sé il testo ma, ad un certo punto non ce la fa, il suo desiderio di intervenire è troppo forte. Ad un tratto il Buffone si strappa il naso e la finta parrucca: “Ma adesso basta… mi sono stufato! Mi sono stufato sia dei vostri discorsi che di fare il buffone, tanto per commentare, darvi i respiri scenici, farvi le introduzioni e i raccordi. Voglio parlare anch’io…” (Ibid., p. 183)

Da questo momento in poi il personaggio abbandona il linguaggio osceno (nel senso letterale del termine) per adottarne uno allegorico. Il suo discorso diventa articolato e il suo stile oratorio. Il Buffone accusa apertamente la linea della fermezza della Democrazia Cristiana e vede scaturire dalle sue azioni un “assioma tragico dell’assoluto” che si concretizza in un “labirinto macabro” fatto di “muri di regole assolute, pareti di intransigenza, bastioni di intolleranza, contrafforti di fermezza” (ibid., p. 183).

Con tono a tratti moraleggiante, il Buffone commenta le ragioni del conflitto tra le Brigate Rosse e lo Stato e avanza delle proposte, offre delle soluzioni: “Io credo, anzi ne sono convinto, che per distruggere il mostruoso labirinto del terrorismo, bisogna avere il coraggio di smantellare il nostro labirinto… smetterla col mito dello Stato…” (Ibid., p. 184)

Il Buffone, come Moro, si mette a fare politica. Verrebbe quasi da dire che, nel tentativo di fare l’esegesi del linguaggio di Moro, questi rimanga intrappolato in quel linguaggio del non dire di cui parla Sciascia nell’Affaire Moro, in quel linguaggio completamente nuovo individuato da Pasolini nel noto articolo delle lucciole (Pasolini, 1977, p. 156-164). Scriveva Sciascia (1978, op. cit.):

Come sempre – dice Pasolini –, solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. I sintomi del correre verso il vuoto di quel potere democristiano che era stato, fino a dieci anni prima, la pura e semplice continuazione del regime fascista. […] Pasolini non sa decifrare il latino di Moro, “quel linguaggio completamente nuovo”: ma intuisce che in quella incomprensibilità, dentro quel vuoto in cui viene pronunciata e risuona, si è stabilita una “enigmatica correlazione” tra Moro e gli altri; tra colui che meno avrebbe dovuto sperimentare un nuovo latino (che è ancora il “latinorum” che fa scattare d’impazienza Renzo Tramaglino) e coloro che invece necessariamente, per sopravvivere comunque come automi, come maschere, dovevano avvolgervisi.

Dario Fo si è ritrovato a fare i conti con questo linguaggio politico, e oltretutto in un momento in cui esso stava subendo una trasformazione significativa.

Già in Empirismo eretico (1972), Pasolini, analizzando un passaggio del discorso pronunciato da Aldo Moro in occasione dell’inaugurazione dell’autostrada del Sole, aveva scritto:

[…] non si tratta di un discorso a tecnici, come il quantitativo di terminologia tecnica, enorme, potrebbe far credere; si tratta di un discorso a un pubblico normale, trasmesso per televisione a un numero di italiani di tutte le condizioni, le culture, i livelli, le regioni. […] Un discorso che Moro ha investito di un’alta funzionalità sociale e politica. […] Qualcosa di fondamentale è dunque successo alle radici del linguaggio politico ufficiale. Esso, insieme al linguaggio letterario, è sempre stato caratterizzato da quel fenomeno anacronistico in quanto tipicamente rinascimentale che è l’osmosi col latino. Ora tale fenomeno è stato sostituito alla base da un altro fenomeno, è osmosi col linguaggio tecnologico della civiltà altamente industrializzata. (p. 21)

Forse la “drammatica analogia” ravvisata da Fo tra il caso Moro e la tragedia greca fa eco all’“enigmatica correlazione tra Moro e gli altri” di Pasolini ?

Il Buffone si immedesima tanto in Aldo Moro da perdere di vista il destinatario del proprio discorso, si sforza di parlare con chi detiene il potere per farsi capire da lui e non dal suo pubblico. Un pubblico che, come il linguaggio, sta mutando. Resta da chiedersi, in quale direzione esso stesse mutando nel 1979. Se gli anni di piombo avessero generato un pubblico che poteva annoiarsi più facilmente, assuefatto sia alla misera fantasia del potere che al potere dell’immaginazione.

Bibliografia

Opere

Fo Dario, 1973, Mistero Buffo, Verona, Bertani.

— 1992, Fabulazzo osceno, Milano, Kaos.

— 1997, Manuale minimo dell’attore, Milano, Einaudi.

— 2007, Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin, Parma, Guanda.

Pasolini Pier Paolo, 1977, Scritti corsari, Milano, Garzanti.

— 1972, Empirismo eretico, Milano, Garzanti.

Puppa Paolo, 1978, Il teatro di Dario Fo. Dalla scena alla piazza, Venezia, Marsilio.

Sciascia Leonardo, 1978, L’Affaire Moro, Palermo, Sellerio.

Articoli

Alfonzetti Beatrice, 2000, Gli anni di piombo. Satira e tragedia in Dario Fo, “L’illuminista” no 2-3.

Bruzzone Natalino, 1979, Passione e morte di Moro secondo Fo, “Il Lavoro”, 1 giugno.

Carizzoni Pier e Zeni Armando, 1979, Il potere ha ucciso Aldo Moro, “Contro”.

Valentini Chiara, 1979, Dario Fo ne fa una tragedia, “Panorama”, 5 giugno.

— 1997, La beffa più grande, “L’Espresso”, 23 ottobre.


[1] Cfr. i disegni sull'archivio Franca Rame e Dario Fo:

[http://www.archivio.francarame.it /galleria.asp?idtipologia=DISE&IDOpera=CASO&numero=11].

[2] Agence-presse Adnkronos, no 117, 26 maggio 1979.

[3] Fo, 1992 (“Il caso Moro”). Tutte le citazioni sono estratte da questa edizione.

[4] “Nella tragedia di Aldo Moro non ci sarà niente di grottesco. La chiave del testo è quella di un’ironia tragica, della violenza dialettica che traspare dalle posizioni dell’uomo condannato a morte e di chi non vuole salvarlo. Questa messa in scena vuole dimostrare come la nostra sia ancora una cultura ferma al basso medioevo, alla ragion di Stato e basta. Insomma, nessuno ha il coraggio di affrontare le contraddizioni, di cercare di capire una realtà con più di una faccia. Il Potere vuole trascendere e assolutizzare, con una prassi tipicamente religiosa, tutto quanto è codificato dalle leggi e dalle nostre ‘tavole’.” (Bruzzone, 1979)

[5] Valentini, 1997, art. cit.

[6] Alfonzetti, 2000, p. 148-149 (questo articolo mi ha fornito l’opportunità di questo lavoro).

[7] “La prima parte si chiuderà con il rito del funerale dove gli uomini del Potere cercheranno di rubarsi l’un l’altro la bara, sino celebrare la cerimonia con un sarcofago vuoto. L’ultimo atto, quello più difficile, lo sto ancora scrivendo: qui entreranno in scena le Brigate Rosse. Gli attori esporranno in una lunga discussione la logica dei brigatisti.” (Bruzzone, art. cit.)

[8] “[…] ho in testa più di una ipotesi. La più naturale dovrebbe essere quella di analizzare come si sviluppa nel Potere il terrorismo e come questo si muove fuori dal potere, cioè un’analisi sulla natura delle Brigate Rosse oltreché dello Stato. Ma qui, dicevo, sta il difficile” (Carizzoni e Zeni, 1979, p. 63).

[9] Intervista a Dario Fo, “Il Lavoro”, 27 avril 1979.

[10] “Io tento di formulare delle ipotesi, di rispondere a delle domande. A chi è servita la strage di via Fani? A chi è funzionale un’Italia dove non si parla più di riforme, dove è passata la logica del meno peggio, dove sono stati messi in ginocchio i sindacati, bloccate le lotte? E ancora: che fine ha fatto la macchina del terrore, delle stragi di Stato? Tutti buoni, tutti a casa con la testa a posto?” (Valentini, 1979)

[11] “Se io mi limitassi a raccontare le angherie usando la chiave tragica con una posizione di retorica o di malinconia o di dramma (quella tradizionale, per intenderci) muoverei solo all’indignazione e tutto, immancabilmente, scivolerebbe come acqua sulla schiena delle oche, e non rimarrebbe niente.” Dalla nota introduttiva a Mistero Buffo, 1973, p. 19.

[12Quei cinquanta giorni: una tragedia greca, intervista a Dario Fo, “La Repubblica”, 27 mai 1979.


Citer cet article :

Federica Tummillo, « Il Buffone incatenato. La tragedia di Aldo Moro di Dario Fo
 », colloque Littérature et "temps des révoltes" (Italie, 1967-1980), 27, 28 et 29 novembre 2009, Lyon, ENS LSH, 2009, http://colloque-temps-revoltes.ens-lsh.fr/spip.php?article146