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Rappresentare un’assenza :Caro Michele di Natalia Ginzburg

Claudia Nocentini

Résumé

Pubblicato nel 1973 Caro Michele di Natalia Ginzburg è probabilmente il primo romanzo italiano che mette in scena la storia di un giovane terrorista. Nel mio contributo vorrei analizzare sia il romanzo sia la versione cinematografica di Mario Monicelli del 1976, considerando in particolare la rappresentazione della società e della famiglia italiana attraverso i diversi punti di vista generazionali e di genere che la compongono.

Texte intégral

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Uscito nel 1973, Caro Michele è il primo romanzo italiano che porta in scena il tema del terrorismo. Come spiega Marta Penchini: “In questo romanzo la Storia [...] entra in punta di piedi, in posizione defilata rispetto alla storia della vita quotidiana, non si fa riferimento a fatti precisi, eppure qui il terrorismo diventa un elemento centrale nello svoglimento della storia”[1].

Diviso in 42 sezioni che inframmezzano 37 lettere a 9 segmenti narrativi, s’intitola Caro Michele, perché è proprio l’assente Michele il destinatario di 18, e quindi della maggior parte, delle lettere. A scrivergli sono sua madre Adriana, sua sorella Angelica, Mara Castorelli, una ragazza con cui ha avuto un rapporto aperto e dalla quale potrebbe aver avuto un figlio, e Osvaldo, amico e probabilmente ex amante. Michele scrive a sua volta in particolare ad Angelica, e a Mara, ma anche, benché assai più raramente alla madre e una sola volta a Osvaldo.

Scritte nel tentativo di mantenere un contatto che tende a sfuggirle, le lettere di Adriana al figlio sono le più frequenti e le più informative, anche perché si sente sola, comprensibilmente, dopo un matrimonio e un amore falliti, e inoltre perché si è appena trasferita in campagna e, pur con le raccomandazioni di Ada, l’onnipotente ex moglie di Osvaldo, prima che le sia istallato il telefono passeranno i dieci mesi dell’intero arco narrativo. Anche le lettere di Mara contengono narrazioni relativamente estese, forse per combattere l’isolamento di madre singola e nomade, forse per cercare un senso alla propria vita raccontandosi. Tuttavia è Angelica la corrispondente più centrale all’intreccio, tanto perché funge da tramite nel rapporto di Michele con la famiglia e in particolare con la madre, quanto nel suo prodigarsi al mantenimento del legame con Mara[2]. Nel suo ruolo privilegiato di confidente di Michele, Angelica si trova a doverne distruggere un’arma dimenticata in una stufa e ad assistere gli amici di passaggio per Roma. Infine sarà Angelica, la prima ad essere informata della sua morte.

L’arco temporale della vicenda va dal giorno del quarantatreesimo compleanno della madre, agli inizi di novembre 1970, fino al 9 settembre 1971. In questi mesi la famiglia estesa del ventenne Michele subisce due gravi perdite: la morte del padre e quella dello stesso giovane. Judith Laurence Pastore legge giustamente in questo la rappresentazione di un mondo dal quale sono sparite le forti figure paterne e dove sono gli uomini piuttosto che le donne ad essere marginalizzati[3]. Nel pensiero e nelle opere della Ginzburg questo fenomeno segna una perdita e un generale rafforzarsi della solitudine[4]. Ai due lutti vanno infatti aggiunti la fine del rapporto fra Adriana e Filippo, quello fra Mara e Fabio, il Pellicano, quello fra Michele ed Eileen, oltre che la rottura di svariate amicizie, in particolare fra Mara e Lillia.

La fragilità dei rapporti umani è forse sofferta in particolare da Adriana e Osvaldo, il cui amore per la memoria è non solo occasione di somiglianza e quindi di amicizia, ma anche di consapevolezza che la forza interiore va coltivata nella ricerca di una verità nel rapportarsi dei destini umani. È questo che si trasforma in senso di appartenenza a una comunità; bene forse paradossale dato che, rispetto alla negligenza altrui, l’unico effetto visibile della loro costanza sembra essere l’acuirsi della malinconia. Adriana, la cui attenzione per le lettere del figlio è puntigliosissima, è in grado di ricostruire a posteriori i pensieri altrui, e Osvaldo, capace di sintetizzare in poche battute, a beneficio di Mara, la storia del proprio matrimonio e il carattere della sua ex moglie, sa ricollegare gli avvenimenti. Loro è anche la prerogativa di interrogare le tracce del passato, del cercare reliquie culturali o reificate che siano. Adriana le insegue nei brani di una canzone della resistenza spagnola cantata prima dall’ex marito, poi in un lontano pomeriggio dal suo ex partner con Michele ragazzo. Osvaldo compie un pellegrinaggio negli ultimi luoghi in cui Michele ha vissuto interrogandone i conoscenti e gli oggetti rimasti nelle case, trovando solo una maglietta con l’etichetta di un negozio di Roma, che però decide di non prendere perché era già stata trasformata in straccio da polvere. Teresa Picarazzi sottolinea la debolezza di questo ripiegamento sul passato e trova che l’autrice critichi i personaggi in questione, ma trascura il loro passato di vittime di un impianto giuridico ostile tanto agli omosessuali, come è suggerito sia Osvaldo, quanto alle donne[5]. In particolare, la patria potestà che permetteva di spezzare il rapporto fra madre e figli come nell’intreccio del romanzo viene a cadere solo nel 1975 e, pur non amando il femminismo, la Ginzburg era un’attenta osservatrice delle disparità sociali fra i sessi e condivideva le richieste pratiche dei movimenti femminili[6].

La fugacità dei legami è in rapporto diretto con l’immaturità dei personaggi ed è visibile nell’incapacità di assumersi responsabilità soprattutto nei confronti della prole. In questo mi pare che la Ginzburg punti l’indice più verso la generazione che dovrebbe essere matura[7]. Il padre di Michele, per esempio, non si è curato affatto delle altre quattro figlie e anche Michele è vittima della separazione dei genitori e più specificatamente della decisione del padre di tenerlo con sé, lontano dalla madre e dalle sorelle, cresciuto, a detta della madre, sotto una continua pioggia di lodi e al riparo da tutte le critiche, ma, secondo sua sorella Viola, trascurato e lasciato solo in casa con vecchie cuoche[8].

Anche Adriana, tuttavia, non si risparmia colpe nei riguardi delle figlie, spiegando che “per educare un altro bisogna avere nei confronti di se stessi almeno un poco di fiducia e di simpatia”[9]. Per quanto Alan Bullock legga convincentemente un sostanziale miglioramento nel modo di Adriana di corrispondere con Michele, la depressione e mancanza di autostima le impediscono di comunicare in modo efficace[10]. Alle otto lunghe lettere della madre, il figlio risponde solo due volte, lasciando che sue notizie le siano filtrate dalla sorella. Dal proprio esilio in campagna, Adriana ha rare occasioni di racconto per Michele e, come l’anonima voce narrante degli inserti narrativi, non può che sottolineare la semplicità del quotidiano, con descrizioni che fedelmente riportano i colori e le fantasie indossati dai vari personaggi, il colore degli occhi e dei capelli, la corporatura, la pettinatura, la marca di quello che bevono, dall’orzo Bimbo all’Ovomaltina, quel che preparano per cena. Le sue lettere al figlio sono improntate a grande sincerità circa il proprio stato d’animo, compresi i momenti di tristezza, e sono infarcite di critiche e predicozzi. Dall’ultimo incontro fra Angelica e il padre apprendiamo che Michele ha investito e ucciso una suora mentre, automobilista inesperto, correva a soccorrere la madre depressa[11] e in una lettera Mara gli ricorda di aver cercato di consolarlo dopo l’incidente[12]. Possono essere passati al massimo due anni, ma nella corrispondenza di Adriana al figlio, non c’è traccia di questo avvenimento tragico. Come rileva Teresa Picarazzi, il rapporto fra loro risulta problematico e sbilanciato[13].

Parlando di immaturità nei confronti della prole è emblematico il caso di Mara. Nella sua decisione di non abortire[14] e di metter al mondo il proprio bambino senza un compagno, va controcorrente e si trova ad affrontare un carico di responsabilità che infantilmente cerca continuamente di passare agli altri. Nonostante l’aborto fosse illegale fino al 1978, questa ed altre trame della Ginzburg lo rappresentano come un’alternativa di tutt’altro che difficile esecuzione, benché le varie protagoniste optino poi per il matrimonio[15] Mara non cerca di farsi sposare, in particolare da Michele, e la forza di questo personaggio capace anche di mentire pur di non far pena sta nel non dubitare troppo di sé, nel chiedere o anzi esigere aiuto apertamente, nell’aspettarsi una società in cui una donna sola possa far crescere un bambino. Il suo vulnerabile nomadismo è simmetrico a quello di Michele, e le sue rivendicazioni sono tanto esplicite e concrete quanto sono inafferrabili quelle di lui.

Il contrario dell’immaturità è il prendersi cura degli altri, il farsi carico dei loro bisogni e in questo è la generazione più giovane a brillare. Se i personaggi maturi, Ada, Osvaldo e Adriana stessa agiscono frequentemente e con relativa abilità, le loro azioni sono quasi sempre riparatorie, necessarie. La stessa Ada, il cui personaggio è simmetrico a quello di Adriana, per quanto caratterizzata dal perpetuo prodigarsi per gli altri non agisce in modo puramente compassionevole; la sua iperattività è percepita da Osvaldo come una forma di controllo, che si intuisce mirata ad attuttire il senso di solitudine e delusione; secondo Angelica è semplicemente mossa dalla “curiosità per il denaro e per le trasformazioni che il denaro poteva compiere sulle cose”[16]. Nella figura di Angelica, ma anche in quella di Michele, sebbene, come rileva Osvaldo, in modo più effimero, l’agire disinteressato è il risultato di un’empatia intuitiva tenuta in esercizio dal loro giro continuo di rapporti di amicizia e di dipendenze. Franco Pappalardo La Rosa vede “frantumato” il nucleo familiare di questo romanzo, “inutili” e fredde le parole che i protagonisti si scambiano:

Come se i corrispondenti fossero impediti ad esternare i rispettivi sentimenti da un insormontabile muro di pudore. Oppure come se quei sentimenti si fossero, in loro, essiccati da tempo, esauriti[17].

Si potrebbe dedurre, al contrario, che Angelica e forse Michele stesso, abbiano la capacità di intuire i reciproci stati d’animo. Angelica comprende l’infelicità di Michele solo dopo due settimane dal matrimonio con Eileen, e sarebbe pronta ad andarlo a trovare a Leeds[18]. Michele glielo impedisce probabilmente proprio perché si rende conto che, come lei gli dirà nella lettera successiva, anche lei attraversa un periodo difficile[19]. Le loro comunicazioni sono brevi, ma tempestive e generose, improntate a una sollecitudine verso gli altri e al personale disinteresse[20]. Per quanto molto infelice, Michele scrive ad Angelica di confortare Mara dopo la separazione dal Pellicano[21]. Benché le coperte della casa di Angelica non siano granché, come osserverà più tardi sua madre, Angelica si rifiuta di prendere quelle buone che la madre ha regalato a Michele togliendole a Ray, l’amico che ora alloggia nel suo scantinato[22]. Angelica e Michele condividono il senso di solidarietà generazionale che, basato più sulle emozioni che su un’ideologia specificamente politica, è il retaggio più concreto e visibile dei movimenti di protesta della fine degli anni ‘60[23].

Rispetto alle responsabilità umane mi pare che la Ginzburg raffiguri l’impegno politico come qualcosa di relativamente vuoto in un clima sostanzialmente intollerante e alterato. Il conflitto interno alla sinistra di quegli anni viene rappresentato con estrema concisione nel rapporto fra i personaggi maschili, in particolare il padre, Oreste e Ray. Artista che dipinge cantando un inno della resistenza spagnola, il padre incarna il senso di vuoto di una delusione storica[24]. Nel suo desiderio d’isolamento è deciso ad evitare quasi tutti, ma in particolare le figlie, i cui mariti considera rispettivamente un borghese (l’apolitico) e un burocrate. Quest’ultimo è Oreste, il marito di Angelica, giornalista e attivista sindacale e politico del PCI, ossia della sinistra parlamentare e riformista, che secondo lei “vede fascisti e spie dappertutto”[25]. Oreste attribuisce idee fasciste anche a Ray, amico di Michele, latore di una delle sue prime lettere dall’Inghilterra e ospite della coppia. La convivenza si conclude dopo un violento scambio di vedute fra i due, in cui Ray riceve un pugno sul naso da Oreste per averlo chiamato “revisionista”[26]. Comicamente, l’extraparlamentare viene picchiato dal democratico ed è costretto a trasferirsi nello scantinato sotto alla libreria di Osvaldo, monolocale che appartiene alla sua ex moglie ed è stato l’ultima residenza romana di Michele.

Ada, che considera Oreste “un funzionario di partito che sembra un ragioniere”, è irritata dalla presenza nello scantinato di Ray, che non conosce ma a cui pensa come a un nuovo potenziale dinamitardo[27]. Mentre le sue paure si rivelano infondate, è costretta a ricorrere ad un amico medico quando Ray, picchiato dai fascisti ad una manifestazione, viene portato al Pronto Soccorso con la testa ferita[28].

La distanza fra madre e figlio prefigura la distanza fra lo stesso Michele e gli altri personaggi: agli inizi di dicembre 1970, ossia a meno di un mese dalla prima lettera, Michele ha già lasciato Roma. Il pretesto per la madre è che da pittore di rovine, gufi ed avvoltoi[29] ha deciso di darsi alla scultura a Londra. Ma che sia partito senza biancheria (e per cominciare un corso all’inizio di dicembre) non può che suscitare sospetti: Adriana ha il ragionevole timore che sia una fuga dovuta a motivi politici. Lo stesso Osvaldo che l’ha informata della partenza precipitosa del figlio non ha negato che questi possa essere legato a dei “gruppuscoli politici pericolosi”[30]. La successiva lettera di Michele ad Angelica conferma che l’arresto di un suo amico l’ha convinto a partire e, in volo sopra la Manica, si è ricordato di avere lasciato un mitra smontato dentro la stufa a legna[31]. Su richiesta di Michele, Angelica getterà il mitra nel Tevere, e Franco Pappalardo La Rosa sottolinea che è l’animale istinto di protezione familiare ad indurla a tacere alla madre la serietà del pericolo corso dal fratello[32]. Saranno le considerazioni di Osvaldo più tardi ad assicurare il lettore che tanto Michele quanto Osvaldo stesso non hanno mai usato un’arma in vita propria[33]. Ma la stessa presenza di un mitra, per quanto arrugginito, e il litigio fra Michele e Gianni circa la possibilità che ci siano spie fasciste nel loro gruppo accennano per quanto imprecisamente a un’appartenza politica[34]. Il periodo in Inghilterra, prima a Sussex come au pair a casa di un glottologo e sua moglie, poi a Leeds come lavapiatti e accendi caldaie a seguito di un’amica paiono distoglierlo dall’attivismo[35]. All’epoca del matrimonio con Eileen annuncia che quest’ultima è iscritta al Partito Comunista mentre lui continua “a non essere comunista, [...] a non essere niente e [ha] perso contatto con quegli amici che avev[a] a Roma e non s[a] più niente di loro”[36]. Il loro matrimonio durerà due settimane (una sola settimana più dei loro otto giorni di felicità). Michele non scriverà più: è la lettera di un conoscente ad informare Angelica che Michele è partito per destinazione ignota il 30 di aprile. Nel mese successivo in un corteo di studenti disperso dalla polizia, verrà inseguito ed accoltellato da un gruppo di fascisti a Bruges. Angelica, Oreste e Osvaldo andranno a prenderne la salma in Belgio e sulla base di ipotesi ricostruiranno quel che potranno della vicenda.

La prossimità a un padre che lo stima senza conoscerlo, e subito sparisce di scena, la distanza dal resto dei famigliari nel passato e geografica al presente, la concisione delle sue lettere di corrispondente incapace e la reticenza nel dar notizie di sé che lui stesso ammette, avvolgono Michele in un alone di mistero e d’incertezza che coinvolge i suoi rapporti con gli altri. Tutti, Mara compresa, interrogano i tratti del suo bambino per capire se è figlio di Michele. Benché questo sia possibile, le sorelle credono che Michele sia bisessuale e sospettano che la sua amicizia con Osvaldo nasconda un rapporto omosessuale. A tal proposito Peg Boyers osserva che le lettere fra i due indicano, pur nella loro brevità, la maggiore comprensione reciproca[37].

Indefiniti sono anche gli obiettivi del ragazzo: da pittore a au pair, in questi mesi studia l’inglese e il clarino. Caratteristici sono invece i suoi interessi di lettura: chiede che gli siano spediti I Prolegomeni e la Critica della Ragion Pura di Kant e Les Fleurs du Mal di Baudelaire, libri di filosofia e di poesia. Ha parole di sdegno per l’unico romanzo: Polenta e veleno, scritto dalla sorella del padre e pubblicato su pagamento della madre. Nel disinteresse nei confronti della propria parte di eredità e nella promessa di non indossare mai l’abito scuro, Michele, pur senza i capelli lunghi, pare incarnare la propensione alla precarietà che caratterizza il rifiuto dei valori borghesi[38]. Se nel suo nomadismo si può leggere come fa Ada una ribellione al materialismo della borghesia e un rifiuto della maturità[39], non si tratta di atteggiamenti che lo distinguano dalla maggior parte degli altri personaggi. Infatti, con l’eccezione di Mara in cerca di un luogo nel quale vivere con continuità, sono incerti gli obiettivi di tutti. L’assenza e la non conoscibilità del giovane attivista in Caro Michele segnano la tragicità di una perdita già avvenuta in vita e mi paiono lo stampo di successive rappresentazioni, da Gli invisibili di Nanni Balestrini, a Il pettine, di Laura Pariani[40].

Nella sua analisi del terrorismo nel cinema italiano, Alan O’Leary dimostra che l’unico genere che se ne sia occupato con una certa tempestività sia quello della commedia all’italiana e mette Caro Michele di Mario Monicelli (1976) fra Mordi e fuggi (Dino Risi, 1973), Un borghese piccolo piccolo (Mario Monicelli, 1977), Caro papà (Dino Risi, 1979) e Tre fratelli (Francesco Rosi, 1981)[41].

Stefano della Casa informa che “la Ginzburg non seguì la lavorazione, nonostante la forte componente autobiografica del romanzo (o forse proprio a causa di essa)”[42]. Fra il libro e il film di Monicelli, mi sembra che il secondo decida di sottolineare la distanza e invisibilità di Michele, il quale compare solo nei ricordi della madre dopo la sua morte come il ragazzino che canta la canzone della resistenza spagnola. Per quanto chiaramente vicino alla trama del romanzo, il film piega l’intreccio alle convenzioni della commedia all’italiana, compresa l’aggiunta gratuita del nudo di Angelica uscita dalla doccia. In modo anche più problematico, il copione cancella quasi tutto quel che ha a vedere con il testamento del padre, che assegna a Michele la maggior parte delle sue proprietà e che ha un valore altamente simbolico nel romanzo, sia in quanto critica del patriarcato sia in quanto permette di polarizzare fra l’atteggiamento materialistico e borghese di una delle sorelle e quello disinteressato ed altruistico di Michele e Angelica. Lamentando la perdita del cognome di famiglia, l’Adriana cinematografica rimpiange perfino che Michele non abbia riconosciuto il figlio di Mara, idea conservatrice che il testo attribuisce solo ad Ada. Inoltre il film enfatizza la critica al nomadismo giovanile sottolineando il fastidio che questo crea nel mondo “normale e sedentario”, con lo sbuffo di fastidio di Oreste all’arrivo di Ray mandato da Michele a casa sua e di Angelica, che non esiste nel libro, e filmando per intero l’episodio in cui Mara è costretta a chiamare i pompieri per rientrare a casa delle Peroni essendo uscita senza le chiavi, una scena descritta in poche righe nel romanzo. Completamente diverso è anche il finale in cui la baldanzosa Mara spinge la carrozzina col figlio e tutti i suoi averi lungo l’autostrada, e neppure lungo la corsia preferenziale, ma sulla carreggiata vera e propria per essere certa che qualcuno si fermi e le dia un passaggio. È un finale che vuol far risaltare l’inavvedutezza e vulnerabilità delle giovani generazioni randage e nella sua tragica semplicità ha un suo fascino. Meno tragico e più interessante era il finale che le aveva assegnato la Ginzburg, in cui Mara e il bambino nella villa di un anziano signore omosessuale godevano una temporanea parentesi di comodità, nella quale era percepibile l’inizio di una maturazione. In una sua lettera ad Angelica, Mara spiegava che non esistono spiegazioni ai nostri doveri, affermazione che segnalava un’accettazione delle proprie posizioni e responsabilità[43]. La solidarietà fra le due donne non era basata su legami di sangue, ma di affetto e di responsabilità.

 

 


[1] Marta Penchini, “La morte della famiglia” e il femminismo negli anni sessanta e settanta. I romanzi di Lalla Romano e Natalia Ginzburg, in Narrativa italiana degli anni Sessanta e Settanta, a cura di G. Ania e J. Butcher, Napoli, Dante & Descartes, 2007, p. 60.

[2] Sul personaggio di Angelica, si veda in particolare l’analisi di Teresa Picarazzi, Maternal Desire: Natalia Ginzburg’s Mothers, Daughters and Sisters, Cranbury, Associated University Presses, 2002, pp. 162-163.

[3] Judith Laurence Pastore, The Personal Is Political: Gender, Generation, and Memory in Natalia Ginzburg’s “Caro Michele”, in Natalia Ginzburg: A Voice in the Twentieth Century, a cura di A. M. Jeannet e G. Sanguineti Katz, Toronto, University of Toronto Press, 2000, p. 91.

[4] “In Caro Michele le donne sono molto sole […] e ciò non vuol dire che un tempo erano meno sole, ma era diverso. Avevano uomini forti accanto ed erano piuttosto vittime degli uomini. Nel nostro tempo le donne giustamente hanno fatto un gran passo avanti, e gli uomini di fronte a questo sviluppo delle donne si sentono deboli.” Intervista riportata in Maja Pfluig, Natalia Ginzburg arditamente timida, Milano, La Tartaruga, 1997, p. 137.

[5] Maternal Desire: Natalia Ginzburg’s Mothers, Daughters and Sisters, op. cit., p. 165.

[6] Si veda Lesley Caldwell, Italian Family Matters, New York, Macmillan Presses, 1991, p. 74 e Natalia Ginzburg, La condizione femminile (1973), in Opere, 2 vol., Milano, Mondadori, 1987, pp. 647-653.

[7] “Ma nonostante il suo atteggiamento critico nei confronti del movimento sessantottino, Natalia si sentì sempre attratta dai giovani. ‘Per i giovani d’oggi io provo una gran tolleranza, una gran simpatia, e trovo che abbiano più qualità della mia generazione.’ Le piaceva la loro determinazione. La sua gioventù era stata caratterizzata da esitazioni e incertezze. Diceva che la sua generazione aveva sì saputo sviluppare forza interiore ma senza autorità, sicché forse era troppo giovane per la propria età, e in ogni caso incapace di comandare.” In Natalia Ginzburg arditamente timida, op. cit., p. 26.

[8] Natalia Ginzburg, Caro Michele, Turin, Einaudi, 1973. Cito da Opere, op. cit., pp. 382-283 e 424.

[9Ibid., p. 383.

[10] Alan Bullock, Natalia Ginzburg, New York, Berg, 1991, pp. 150-156.

[11Opere, op. cit. p. 374.

[12Ibid., p. 409.

[13] Maternal Desire: Natalia Ginzburg’s Mothers, Daughters and Sisters, op. cit. p. 169.

[14Opere, op. cit. p. 361 e p. 369.

[15] Si vedano La strada che va in città (1947) e Tutti i nostri ieri (1950).

[16Opere, op. cit. p. 490.

[17] Franco Pappalardo La Rosa, “Caro Michele” o dell’inutilità delle parole, in Natalia Ginzburg: la casa, la città, la storia, a cura di Giovanna Ioli, San Salvatore Monferrato, edizioni della Biennale Piemonte Letteratura, 1995, pp. 75-86, in particolare p. 76.

[18Opere, op. cit. pp. 458-459.

[19Ibid., pp. 460-461.

[20] Anche in questo caso non condivido l’impressione di Pappalardo La Rosa che Michele sia, per iscritto, “gentile, sbrigativo, sintetico. E di una vacuità, di un’aridità raggelanti”; in “Caro Michele” o dell’inutilità delle parole, op. cit., p. 76.

[21Opere, op. cit., p. 456.

[22Ibid., p. 411 e p. 399.

[23] Si veda Andrea Hajec, “ ‘Hasta la Victoria Siempre’: The Impact of Latina American Revolutionary Models on Glocal Communities in Italy 1968-2008”, letto alla Biennial Conference of the Society for Italian Studies, Royal Holloway, 16-19 aprile 2009.

[24] La torre, suo ultimo acquisto, è un inequivocabile simbolo di isolamento. Nella descrizione di Viola, “un mucchio di sassi con una finestra in alto”, p. 490, ricorda “A quell’alta finestra, Dio si affaccerà a guardare la notte e la strada”, verso di una poesia del 1966, ora in Natalia Ginzburg, Non possiamo saperlo: saggi 1973-1990 a cura di Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, 2001, p. 4. L’ubicazione all’isola del Giglio rimanda forse alla torre di Marciana Marina sull’Isola d’Elba ove ha luogo la festa narrata da Raffaele Brignetti in La deriva, Torino, Einaudi, 1955, quasi una commemorazione a dieci anni dalla fine della Guerra, della totale perdita di speranza di rinnovamento da parte della generazione che l’aveva combattuta.

[25Opere, op. cit. p. 399.

[26Ibid., p. 399.

[27Ibid., p. 392.

[28Ibid., pp. 423-425.

[29Ibid., p. 347.

[30Ibid., p. 365.

[31Ibid., p. 366.

[32“Caro Michele” o dell’inutilità delle parole, op. cit. p. 76.

[33Ibid., pp. 395-396.

[34Ibid., p. 369.

[35Ibid., p. 377 e p. 416.

[36Ibid., p. 440.

[37] Peg Boyers, Writing The Self: The Epistolary Novels of Natalia Ginzburg, in Natalia Ginzburg: A Voice in the Twentieth Century, op. cit. p. 114.

[38] Per un approfondimento dei connotati generazionali di questo personaggio si vedano L’area della controcultura, in Nanni Balestrini e Primo Moroni, L’orda d’oro 1968-1977, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 101-104; Silvia Casilio, Una “Internazionale” di uomini di 20 anni. I giovani e la contestazione in un mondo senza frontiere: linguaggi, immagini e azioni del movimento del ‘68, in Giovani e generazioni. Lo stato della ricerca in Italia, a cura di P. Dogliani, Bologna, Clueb, 2008, e “Lavorare con lentezza: garantiti e non garantiti nell’Italia degli anni Settanta”, letto alla Biennial Conference of the Society for Italian Studies, Royal Holloway, 16-19 aprile 2009.

[39]Come è stato sottolineato da Alan Bullock, Natalia Ginzburg, op. cit. p. 223 e da Franco Pappalardo La Rosa, “Caro Michele” o dell’inutilità delle parole, op. cit. p. 76.

[40]Nanni Balestrini, Gli invisibili, Milano, Bompiani, 1987 e Laura Pariani, Il pettine, Palermo, Sellerio, 1995.

[41] Alan O’Leary, “In pieno fumetto: Bertolucci, Terrorism ad The Commedia all’Italiana”, letto alla conferenza della Society for Italian Studies, Bangor, giugno 2007 e in attesa di pubblicazione in Tragedia all’italiana: Italian Cinema and Italian Terrorisms 1970-2008, Oxford, Peter Lang, 2009.

[42] Stefano della Casa, Monicelli, Firenze, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, 1986, p. 68.

[43Ibid., p. 481.


Citer cet article :

Claudia Nocentini, « Rappresentare un’assenza :Caro Michele di Natalia Ginzburg », colloque Littérature et "temps des révoltes" (Italie, 1967-1980), 27, 28 et 29 novembre 2009, Lyon, ENS LSH, 2009, http://colloque-temps-revoltes.ens-lsh.fr/spip.php?article136