Vous êtes ici : Accueil > Programme

L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia 30 anni dopo

Franco Manai

Résumé

Il rapimento di Moro costituisce nella storia italiana uno spartiacque. Se da una parte rappresenta l’apice della traiettoria politica e “militare” delle BR, dall’altra segna anche l’inizio del loro rapido e inarrestabile declino.

E’ aperto, nella storiografia, il dibattito se questo declino sia derivato in prima istanza dall’atteggiamento di risoluta intransigenza adottato dagli organi di governo, sostenuti dai principali esponenti dei due maggiori partiti, DC e PCI, o se esso sia da addebitare a una serie di altri fattori, in cui scarso o nessun ruolo tale intransigenza ha giocato.

All’epoca, il mondo politico italiano si divise nettamente in due parti, una, decisamente minoritaria, favorevole alla trattativa coi terroristi, un’altra, maggioritaria e preponderante, decisamente contraria.

Sciascia scrive L’Affaire Moro a immediato ridosso degli eventi dando con esso la stura a una battaglia di feroci polemiche destinate a non spegnersi a distanza di anni. Egli vi abbraccia infatti, senza incertezze, la seconda ipotesi, e accusa l’apparato politico e mediatico italiano di aver fatto morire Moro senza necessità e senza utile alcuno.
Pur a distanza, ormai, di trent’anni, il tema del rapimento Moro, e delle polemiche a esso collegate, suscita ancora in Italia risentite polemiche. La riedizione di un libriccino di Alberto Arbasino, dedicato anch’esso alla prigionia di Moro, ma con un’interpretazione degli eventi, e della stessa figura di Moro, del tutto differente da quella di Sciascia, ha dato il via a una nuova ondata di discussioni e recriminazioni, che si sono immediate indirizzate nei confronti, più che del libro di Arbasino, di Leonardo Sciascia.
A partire dall’Affaire Moro, Sciascia abbandona la narrativa di finzione, e si concentra nello sforzo, o nella missione, se si vuole, di dare la parola alla realtà.
“Nella sua [scil. di Aldo Moro] storia già come scritta, nella sua storia già opera letteraria (e che qui soltanto si tenta di interpretare) ci sono già prima i segni premonitori”. (L’Affaire Moro, in L.S., Opere1971.1983, a c. di C. Ambroise, Bompiani 2001, p. 544).

La realtà si predispone già di per sé come opera letteraria. Compito dello scrittore sembra solo essere quello di interpretarla. Ma forse prima, possiamo aggiungere noi, la deve trovare, la deve individuare, e magari la deve cercare. Qualcuno (Bruno Pischedda) ha recentemente ricordato questa posizione di Sciascia con una punta di malevolenza, accusandolo di volere attribuire al letterato, in quanto esperto di ciò che la realtà è nella sua vera essenza, e cioè letteratura, il monopolio della comprensione della realtà (politica, sociale etc.).

Al di là di simili boutades polemiche, ci sembra invece rilevante indagare le modalità letterarie nuove che Sciascia inventa collocandosi all’incrocio di una tradizione letteraria che unisce la polemica politica à la Courier, la ricostruzione storiografico-documentaria motivata da forti istanze morali (Pietro Verri, Manzoni), alla vena fantastica e postmoderna di J.L. Borges, in un impasto nuovo, la cui scommessa è quella di lasciarsi alle spalle le frattura tra letteratura e realtà, in nome di un impegno politico e morale tanto più severo quanto meno facilmente, banalmente etichettabile.